DISSEMINARIO
Varietas varietatum et omnia varietas

13 marzo 18 aprile 2010


Reggio Emilia

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La divina varietà

Alberto Giorgio Cassani

«Certo, un pittore, che non è vario si può dire che non sia nulla»
LODOVICO DOLCE, Dialogo della pittura intitolato L’Aretino, 1557

Oggi un pensiero unico sembra volersi imporre con la cosiddetta globalizzazione: in politica, nel modo di pensare, di vivere, di acquistare. Con questo, una sola maniera di parlare, di esprimersi, di vestirsi. D’altro canto, in apparente controtendenza, assistiamo ad un proliferare di linguaggi personali, ultraindividuali (nell’arte e nell’architettura, ad esempio). Ma ognuno di questi artisti, di questi archistar©, come sono stati felicemente chiamati (da Gabriella Lo Ricco e Silvia Micheli), persegue un unico linguaggio, una coerente maniera a lui sua propria (e che permane, come leitmotiv, anche nelle diverse sperimentazioni dell’autore). Assai più difficile è trovare una varietas di linguaggi all’interno di un singolo artista. Non nel senso dell’eclettismo ottocentesco, laddove ad un edificio corrispondeva uno stile (il gotico per le chiese, il rinascimentale per i palazzi e così via), ma nel senso di un’impossibilità di parlare oggi una sola lingua, una sola maniera, perseguendola con coerenza per tutta la vita.
Esempi ce ne sono stati anche nel passato: basti pensare alla svolta di Le Corbusier nel secondo dopoguerra: dalla villa Savoye a Ronchamp, dal padiglione de l’Esprit Nouveau al brutalismo di Chandigarh. Impossibile esprimere “con gli stessi mezzi” le cose dopo il Diluvio della guerra. Naturalmente l’uniformità di un linguaggio permette di riconoscere il “marchio” e consente di affermare un principio di coerenza, di non contraddizione, che il mercato dell’arte può apprezzare: la firma. Contraddicendo tale aspettativa, si può correre il rischio di non essere più compresi (e, dunque, non trovar più posto nell’abbecedario). Due colossi della cultura italiana hanno fatto della varietas uno dei loro temi di riflessione: Leon Battista Alberti e Leopardi. Occorre cominciare dal secondo. Leopardi parla a lungo del problema della varietà, nello Zibaldone di pensieri (cosa, di più “vario”?) collegandolo proprio col linguaggio: «la diversità de’ linguaggi è naturale e inevitabile fra gli uomini, e [...] la propagazione del genere umano portò con se la molteplicità delle lingue, e la divisione e suddivisione dell’idioma primitivo, e finalmente il non potersi intendere, né per conseguenza comunicare scambievolmente più che tanto numero di uomini». Leopardi, addirittura, rovescia la tradizionale condanna biblica della “confusione delle lingue”: «La confusione de’ linguaggi che dice la Scrittura essere stato un gastigo dato da Dio agli uomini, è dunque effettivamente radicata nella natura, e inevitabile nella generazione umana, e fatta proprietà essenziale delle nazioni» (936, 12-13 aprile 1821). Leopardi arriva ad attribuire la varietà alla natura e l’uniformità all’uomo e all’arte. Una varietà così grande «che fino gli stessi filosofi, quantunque tutti cerchino la stessa verità, nondimeno a cagione dei diversissimi aspetti nei quali una stessa proposizione si presenta ai diversi ingegni, sarebbero tutti originali, se non leggessero gli altri filosofi e non osservassero le cose cogli occhi altrui» (128-129, 18 giugno 1820). Leopardi, però, parla di varietas ancora solo fra gli uomini (anche di una stessa città: «è noto che nella città di Firenze si parla più di un dialetto, secondo la diversità delle contrade», 936, 12-13 aprile 1821): Leon Battista Alberti, tre secoli prima, aveva trovato questa varietas dentro gli stessi uomini. Alberti, contro la “riduzione” dell’architettura operata da Vitruvio, scopre, osservando le rovine di Roma, che proprio gli antichi sono stati varî: non esiste un solo capitello uguale all’altro. Ma questa caratteristica non riguarda soltanto le cose realizzate dagli uomini, ma gli uomini stessi: non c’è un’ora, nella vita dei mortali, che possa dirsi uguale all’altra; e così per la natura. La varietà è causata da questo principio di instabilità che Alberti ha chiamato qualche volta con un termine latino: vicissitudo, una potentissima legge di questo nostro mondo sublunare, soggetto ai mutamenti, alle rivoluzioni, all’instabilità ontologica. L’unico modo di arrestarla è morire, perché la vita stessa è questo continuo mutamento. Nessuna frase può esprimere meglio tutto ciò di un passo del Theogenius albertiano (il cui pessimismo “ontologico” sarebbe stato pienamente sottoscritto da Leopardi): «E quanto pronto vediamo ora niuna, come dicea Mannilio poeta, segue mai simile a una altra ora, non agli animi degli uomini solo, quali mo lieti, poi tristi, indi irati, poi pieni di sospetti e simili perturbazioni, ma ancora alla tutta universa natura, caldo el dì, freddo la notte, lucido la mattina, fusco la sera, testé vento, subito quieto, poi sereno, poi pioggie, fulgori, tuoni, e così sempre di varietà in nuove varietà». Sarà per questo che gli edifici che Alberti progetterà a partire dalla seconda metà del Quattrocento risultano essere dei veri e propri puzzle, dei giochi ad incastro, dove Leon Battista parla due differenti linguaggi: quello latino (del Colosseo, degli Archi di Trionfo, del Pantheon ecc.) e quello volgare (della basilica di San Marco a Venezia, del Battistero e della basilica di San Miniato al Monte a Firenze ecc.), estraendo dagli edifici di tutto il passato (antichità e Medioevo), le tessere che comporranno, come in un mosaico, il testo delle sue nuove chiese all’antica. Questo è il punto: tutto è varietà (e nello spettacolo del Varietà vi è “riassunto” il Mondo intero). Straordinario che Alberti l’avesse intuito sei secoli orsono. L’insegnamento di Alberti attecchirà anche in Francia attraverso l’opera del maggiore fra gli architetti transalpini del Cinquecento (uno che conosceva assai bene il trattato di Leon Battista): Philibert de l’Orme. Queste le sue parole, davanti alle rovine di Roma: «vous trouverez ce que je vous ay dit plusieurs fois, est veritable: c’est que de toutes les mesures que j’ay remarquées aux edifices antiques, je n’en ay trové qui fussent semblables, ains tousjours différentes: & toutesfois les edifices estoient tres beaux & admirables à la veuë» (Le Premier Tome de l’Architecture, Paris, 1567). Nessuna delle misure dei grandi edifici antichi segue una regola astratta, una norma canonizzata e inviolabile, ma è sempre varia e differente. E, a dispetto di ciò, tutte queste fabbriche sono dei capolavori. Come ha scritto uno studioso francese, Yves Pauwels, con De l’Orme, «la ruine, o plutôt les ruines dans leur infinie variété prennent rang de modèle». Insomma la varietas fa paura solo a chi vive “ad una dimensione”: lo riconosce magistralmente sempre De l’Orme, commentando uno “strano” capitello «composé de l’ionique», inserito volutamente da lui nel suo trattato: «Laquelle [sottinteso: figure] par les ignorants & fascheux pleins d’envie pourra estre trouvée fort estrange, & peult estre, de mauvaise grace, pour autant qu’ils n’ont accoustumé de voir la semblable & ne peuvent louer ce qu’ils ne sçavent faire & oultrepasse leurs gros esprits». Quello che oltrepassa lo spirito grossolano degli ignoranti e invidiosi appare sempre “fuori dalla norma” fino a che qualcuno non dimostra che si stanno sbagliando. Se la norma, lo stile, è un modo per docere, la varietas è una maniera per movere.
Ma Alberti, lo scopritore della varietas degli antichi, non era stato, nonostante tutto, il primo. Nel IV secolo avanti Cristo, in quella Cina oggi tornata prepotentemente sulla scena del mondo, veniva scritto uno dei testi sapienziali più importanti nella storia delle civiltà: lo Chuang-tzu. Tra le tante indicazioni per raggiungere la Via, troviamo anche una delle prime dichiarazioni contro il pensiero unico e contro la coerenza che diventa prigione. Un magistrale elogio del relativismo – che ricerca pur sempre la “verità”, ma senza mai trovarla –, contro tutte le gabbie che vogliono imprigionare la “divina” varietà: «Nei suoi sessant’anni di vita Ju Bai-yu cambiò sessanta volte opinione. Ogni volta rinnegava ciò che aveva riconosciuto come vero. Chissà se la verità del suo sessantesimo anno non è esattamente il contrario di quello che affermava l’anno precedente? [...] Non è forse questo il grande dubbio? Basta! Basta! Non c’è via di scampo! Dov’è la verità?». Concetto ripreso quasi letteralmente, dopo più di due millenni, da Giovanni Papini, nella prefazione (Due sole parole) al suo 24 cervelli del 1913: «Alcuni scritti son lunghi e pensati, altri brevi e leggeri; ve ne son di quelli che riscriverei oggi tali e quali e altri che muterei volentieri. V’è, insomma, una piccola parte della mia attività sparpagliata, presa così com’è, senza preoccupazioni di ordine e coerenza. Alcuni, difatti, si contraddicono. Cosa importa? In dieci anni un uomo che lavora col suo cervello ha diritto di cambiare – cioè di contraddirsi – quanto vuole».
Se la verità esiste, ma non è conoscibile dal linguaggio dell’uomo (del pittore, dello scultore, dell’architetto, ma anche del videomaker, del writer ecc.), allora meglio cercarla nella varietà, che è in più un rimedio straordinario contro la noia, il grande pericolo di coloro, fra gli uomini, che vivono nel superfluo. Come ben sapeva Leopardi: «La varietà è tanto nemica della noia che anche la stessa varietà della noia è un rimedio o un alleviamento di essa».

Post-scriptum
La mostra di Giordano Montorsi è come il chiostro di Monreale: nessun quadro-capitello è uguale all’altro, ma tutti formano una varietas in unitate o una unitas in varietate (per parafrasare il titolo di un libro di Sandro Ciurlia sul pensiero filosofico di Leibniz); dando ragione, in ciò, ad un grande architetto italiano degli anni Trenta del secolo scorso, Giuseppe Vaccaro, emiliano come Montorsi, che, in un articolo dal titolo Convincimenti – pubblicato, guarda caso, sulla rivista «Stile» di Gio Ponti (n° 27, 1943) – aveva scritto: «Insomma sullo stile non è possibile sedersi credendo di averlo raggiunto. Se si vuole che rimanga vivo occorre ricrearlo continuamente».