DISSEMINARIO
Varietas varietatum et omnia varietas

13marzo18aprile 2010


Reggio Emilia

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DISSEMINARIO di Giordano Montorsi

di Romano Gasparotti

Di fronte a questa davvero titanica iperesposizione qualcuno potrebbe dire: Giordano Montorsi è ritornato alla pittura! Dopo gli esordi come pittore agli inizi degli anni ’80, dopo la pratica “colta” della scultura e le installazioni degli anni ’90, dopo la sfida postduchampiana della produzione di oggetti di un design concepito come Dasein, ovvero quintessenza dell’esserci artistico nel mondo globalizzato di fine millennio, sino alle ardite sperimentazioni su The Power of Acrobats del nuovo secolo sfociate nelle più recenti sistematiche esplorazioni delle possibilità offerte dalle strutture metalliche del progetto “Kabújo”, ora lo sviluppo davvero palintonos  dell’ergon di Montorsi approda alla lussureggiante e corposissima fantasmagoria di quadri del ciclo Varietas varietatum et omnia varietas. In realtà Montorsi la pittura non l’ha mai abbandonata e la sua opera non è affatto quella di un artista eclettico, come è stato troppo facilmente definito, per quanto egli indubbiamente abbia dimostrato di saper esercitare con rara maestria e potente impatto tutte le molteplici tecniche artistiche con cui, da autentico “operaio dell’arte” (come lo definì Francesco Poli nel 1991), si è cimentato. Se per eclettismo (dal greco eklégo ‘scelgo’) si intende, di norma, l’attitudine ad attingere da elementi, metodi, pratiche, forme e stili di eterogenea natura e provenienza, per raggiungere un’unità che compare solo come risultato e spesso è palesemente posticcia, la ricerca di Giordano Montorsi si è, invece, sempre sviluppata a partire da un’unica arché e lungo il solco di una via unitaria, per quanto sino in fondo palintropos e palintonos (per dirla con Eraclito). Una sorta di sapienziale odós caratterizzata dal risuonare armonico di tanti toni differenti e da un movimento che, nel suo irresistibile andare avanti, contemporaneamente ritorna anche indietro e si sposta su un lato e l’altro, in modo che ogni periferia è centro e ogni centro è l’irradiarsi di una raggiera di circoli. E quest’unico sempre mobile cerchio di cerchi, malgrado tutto, ha intimamente sempre avuto a che fare con la pittura, con la pittura intesa come quel graphein – nel senso originario dell’incidere, del graffiare, del segnare, del tracciare, del marcare, del registrare, del noverare, del citare, dell’ordinare, del costruire, del seminare – che si fa ripercussione dei ritmi del respiro cosmico, nella misura in cui esso si esprime secondo “il suono (phoné), la figura (schéma) e il colore (chroma)” (Platone). Una “musica del silenzio che mira all’incanto”, come Montorsi stesso ebbe modo di definire la propria opera (in un dialogo/intervista con Riccardo Caldura).
DISSEMINARIO, a prescindere dagli echi derridaiani che la parola evoca, nel caso specifico dell’arte di Montorsi, nomina innanzitutto il luogo di elezione, in cui la varietas varietatum quale cifra della sua personale ricerca, viene inviata, viene seminata (come in un vivaio appunto), si dispone sulla scena, occupando tutti gli spazi, si ri-flette e riecheggia e infine viene abbandonata a se stessa sino alla dispersione. È dunque fertile terreno di scrittura (nel senso indicato) e orizzonte di profonda elaborazione e confronto di pensieri. Del resto non solo Montorsi è uno di quegli artisti che ama nutrirsi di letture (molto spesso di carattere filosofico), di parole, di discorsi, di discussioni – “In certi casi potrei affermare di aver dipinto con quel che mi ronzava nelle orecchie, perché sono stati i discorsi, le parole, a creare il quadro nella mia testa” disse Willem de Kooning e Montorsi, credo, lo sottoscriverebbe in pieno – ma il suo viaggio “all’interno della pittura” (come recita il titolo di una mostra del 1984),da autentico “guerriero della conoscenza” (secondo la felice definizione di Gian Ruggero Manzoni), è autentica Thinking Art. È sincera esperienza di pensiero-in-opera, la quale assume, come accade in alcuni maestri del contemporaneo, una forte valenza etopoietica. Essa cioè sperimenta e offre, (dis)seminandoli, exempla circa la possibilità se non di abitare incondizionatamente, almeno di sopravvivere con dignità, senso della pietas e rispetto delle sacre leggi dell’ospitalità, in un universo in cui, ormai tramontate o rivelatesi illusorie le speranze e le utopie di un “altro mondo”, dominano apparentemente incontrastabili le logiche e i dispositivi dell’esclusione, dell’isolamento astratto e della negazione.
Se Jacques Derrida affermò che non si dà scrittura senza iterazione, lo sconfinato graphein di Giordano Montorsi saggia ed esplora con rigorosissima sistematicità, ma insieme anche empiti di furioso accanimento, le possibilità di figur/azione spaziale (indifferentemente sia a livello tridimensionale, sia attraverso la bidimensionalità dei quadri), che l’iterazione e la serialità offrono. Ma non semplicemente per assecondare il disegno demiurgico di ordinare e governare gli spazi secondo il principio di identità/differenza, in virtù del quale la ratio tecnoscientifica pretende di pianificare gli scenari del mondo, essendosi preventivamente immunizzata nei confronti della pura eventualità di ciò che può arrivare (ad-venire)al di fuori di ogni anticipazione e di ogni forma prevedibile. Se il lavorodi Montorsi si limitasse a questo, cioè a riprodurre artisticamente la predisposizione e l’azione di reti sempre più efficaci nella capacità di intercettare e catturare gli scarti e i rifiuti della nostra civiltà post-industriale, testimoniando come la percezione delle differenze presupponga il permanere dell’identità del medesimo, così come, nel contempo, ogni identità si ponga come tale solo in un differire (di sé da sé), il suo graphein risulterebbe totalmente assoggettato al primato della scrittura verbale, ripristinando il tradizionale ruolo ancillare delle immagini rispetto al logocentrismo della parola produttrice di significati al prezzo della rimozione dell’evento. E invece l’“interminabile pittura” (titolo di una mostra risalente agli anni ’80) di Montorsi si misura e gioca sì – con il massimo rigore logico consentito, ma insieme fanciullescamente, come il Dioniso puer di Eraclito, che sposta e dispone le pedine su una scacchiera (fr. 52) – con i sempre più fitti e blindanti reticoli, attraverso i quali la proairesis dell’odierno homo prometheicus è convinta di addomesticare l’imprevedibilità dell’evento e di pianificare gli assetti del mondo. Ma lo fa con lo scopo e l’obiettivo di destituirne, dall’interno, il castello dei significati e mostrarne la costitutiva infondatezza, nella rivelazione dell’abissale vuoto che si spalanca dentro ogni effimera costruzione e dietro e sotto ogni rassicurante cartolina di mondo (“Life in a postcard” è il leit-motiv di una mostra di Montorsi di qualche anno fa).
E allora, come Andy Warhol, nella sua “iterazione compulsiva” (secondo la definizione di Gillo Dorfles), riempiva gli spazi di immagini identiche e al tempo stesso differenti, di rifiuti destinati prima o poi a scomparire – attraverso opere dotate di scadenza e quindi esse stesse rifiuti ed escrementa (nell’accezione letterale del termine) – nella tensione e nello sforzo di riuscire a “toccare” il vuoto assoluto (“Non volevo dipingere nulla. Stavo cercando qualcosa che fosse l’essenza del nulla e quello lo era”); così Giordano Montorsi, attraverso le griglie metalliche dei suoi “sgabuzzini-kabújo”, cattura le moltitudini di oggetti di una vita che cambia solo nel modo di ripetersi (per parafrasare ancora Warhol), oppure riempie sino all’inverosimile di quadri (come nel caso di questa mostra) gli spazi a sua disposizione. Ma in vista di che? Nello sforzo di ri-velare l’abissale vuoto dell’“Aurora degli abissi” (titolo quanto mai indovinato di una coppia di tele del 2007), ovverodi ciò che Platone chiamava chora, “in cui sempre ciascuna cosa generandosi appare e di nuovo scompare” (Timeo, 49e).
In questa prospettiva, il richiamo ad Erebos, alle tenebre, è una costante in tutta l’opera di Montorsi, ma al di qua di ogni dialettica luce/ombra. La tenebra, cui insistentemente allude il graphein di Montorsi, non è semplicemente l’opposto della luce (così come il binomio Erebo lux, che dà il titolo ad un’esposizione del 2004, presso la Rocca dei Boiardo a Scandiano, non esprime un banale ossimoro). Essa è semmai la caligo, l’oscurità sovraluminosa ed accecante dei neoplatonici, è la tenebrositas quale eccesso di luce (excessus luminis)di cui parla Scoto Eriugena, tutte metafore primarie dell’ineffabile, inattingibile e inaccessibile Uno divino, che sta all’origine di ogni cosa e a prescindere dal quale niente apparirebbe del multiforme e variopinto spettacolo del mondo.
Non è affatto detto che, come aveva intuito Warhol, al vuoto dell’accadere – distinctissimus rispetto ad ogni cosa che accade – si possa accedere per sottrazione, in levare, togliendo il più possibile. Già Aristotele aveva messo in guardia dal ritenere che, togliendo privativamente da una certa sostanza tutto ciò che di positivo è da essa sottraibile, alla fine si giunga al niente quale nihil absolutum, perché, in realtà, si resta vincolati al non e quindi prigionieri del negare logico (che consiste nell’affermare qualcosa di diverso, un’altra cosa, al posto di ciò che viene negato).
E se allora – proprio questa è la grande scommessa dell’arte di Montorsi! – l’unica possibile esperienza della sacralità del puro vuoto concessa a noi uomini della tecnica, fosse quella di produrre oltremisura, disseminando di opere, ai limiti della saturazione, lo spazio disponibile, per abbandonarle a se stesse in ogni dove, sino a che esse – separatesi dall’originaria intenzionalità e dalla destinazione preventiva, rimaste orfane di qualsiasi padre e del tutto prive di sostegno ed assistenza – finiscano per smarrirsi, per perdersi e per autonegarsi, depurando così lo spazio da ogni ontica presenza? Nel fare del graphein, lavorando, e in virtù del fare…
In quest’ultima grande mostra, che costituisce una vera e propria summa della ricerca pittorica di Montorsi, ciò che emerge con particolare evidenza è il fatto che, spesso, le grandi tele sono giustapposte, a tre o a quattro, nella peculiare esperienza dello ‘stare accanto’ (di un accantare potremmo dire con un neologismo). Un tale stare-accanto non vale affatto come uno+uno+uno+uno, bensì si mostra come l’echeggiare sincopato e mai speculare di un uno che è tre, ma non tre volte lo stesso uno o di un uno che è quattro, ma non nel senso di quattro volte uno (né di due volte due). Pare che solo in questa disposizione accantante, i quadri di Montorsi si trovino finalmente a proprio agio – tra l’altro quest’ultima parola, derivante dal latino ad-jacere, ‘stare accanto’, nei poeti provenzali esprimeva uno degli aspetti salienti della natura poietica dell’arte, nel suo rinviare all’evento dell’originario aver luogo di qualsiasi cosa – in una condizione e in un’operazione, che fa inceppare, senza peraltro negarli, i regolari meccanismi dell’iterazione logica e, al tempo stesso, preclude ogni sintesi quale reductio ad unum. A conferma del fatto che i ritmi del distinto ripetersi in opera nell’omnia varietas messa in scena e disseminata dal graphein di Montorsi, non sono affatto l’esito dell’imitazione postmoderna sub specie artis del progetto demiurgico dell’irreversibile trasformazione di ciò che era chaos in kosmos (cioè totalità intera, unitaria e ordinata di enti differenti). Esprimono invece l’indomito sforzo di far risuonare la quintessenza musicale – quale musica del silenzio – della straordinaria esperienza di una radicale epoché, ossia della sospensione del nomos stesso della negazione escludente e del principio logico di identità/differenza (che traducono e predispongono tutto quanto accade, in un cosmodi significati pronti per offrirsi alla presa e al dominio di una volontà di potenza cui nulla sfugge). Onde far spazio alla possibilità del rivelarsi dell’oscurità sovraluminosa dell’assoluto Fuori, che tutto immanentemente avvolge e a prescindere dal cui insondabile mistero lo spettacolo di nessuna varietas varietatum potrebbe mai apparire. L’inattingibile spazio/non-spazio assolutamente vuoto dell’accadere, con il quale, in trent’anni di lavoro e di esercizio del pensiero, Giordano Montorsi ha sempre tremendamente cercato, in tutti i modi, di trovarsi a tu per tu.

gennaio 2010