Design / Dasein



Ernesto Luciano Francalanci


Il tavolo e il ferro da stiro

Il ferro da stiro con i chiodi, che Man Ray crudelmente ci regala ("Cadeau"!) per toglierci l'illusione che si possano stirare le pieghe (Deleuze concorda), trasforma un oggetto di design in opera d'arte: secondo esattamente il suo etimo, arte – che ha alla radice l'AR di arnese, di arto e di arma – diventa strumento critico, rasoio di Occam (gulp!), lama di Fontana, bisturi di Orlan. Critico (crisi!), uguale: separo, discrimino, contrappongo, disgiungo: la piatta terra (la desolata terra di Eliot) è sconvolta, si fessura in cretti (la povera Gibellina di Burri). Nessun lenimento da part dell'arte. Solo annunciazioni, pardon, enunciazioni.
Cadeau approfondisce la piaga, scava nella profondità del corpo, strappa la pelle, squarcia velari, tele, sipari: annuncia la fine della bellezza, enuncia la verità della carne. Lo spettacolo non prevede rappresentazioni, ma azioni: la ferita non può più essere allusa, ma vissuta.
Cadeau, come ogni opera d'arte, mette in crisi, produce crisi, è crisi. Questa la differenza tra arte e design: questa la differenza "classica" tra arte e design, fin tanto che il postmoderno non ha cambiato le carte in tavola.
E proprio qui entri tu nel discorso, caro Giordano, con i tuoi tavoli postmoderni sui cui dispieghi arte e design, opere tridimensionali che hanno perso funzione per la forma (son pieni di punte!) e che non posseggono più alcuna relazione formale e stilistica con ciò che chiamiamo scultura (son dotati di gambe e di piani d'appoggio!). Anzi, talvolta una vera e propria scultura (Una semisfera max-billiana, per esempio) è posata sul tuo oggetto, procurandogli un'immediata funzione d'appoggio e facendolo ritornare tavolo! E allora, dove comincia il design e dove comincia l'arte? Dov'è il bordo dell'oggetto, dov'è il confine dell'opera?
C'è un piano reale e un piano metaforico nell'incontro tra arte e design, che i tuoi oggetti-opera ci ripropongono.
Sul terreno di quest'incontro, corrugato da pieghe profonde, design e arte non producono più delle "cose", ma creano essenzialmente delle fenomenologie. Il design attraverso la sua forma simbolica e narrativa, allegorica e metaforica. L'arte attraverso il suo nuovo pensiero progettuale e tecnologico.
Da una parte l'insidia artistica del design (Starck, Lovegrove...). Dall'altra la provocazione tecnologica dell'art...
Questi due mondi, l'esteticità del design e l'artisticità dell'arte, trovano la loro confluenze nel luogo in cui il primo prende forma, avendo perso la sua funzione, e la seconda acquista una funzione, avendo perso la sua forma.
Design e arte si scambiano le parti, in un incontro vorticoso di correnti: con-fluenza di flussi energetici in uno stretto passaggio di pensieri nomadici.
La lingua tocca la punta del ferro da stiro a vapore, rovesciato dalla parte della sua pancia da pesce di fondale marino (fori vaporosi, come branchie, al posto di chiodi pungenti!), nel manifesto di Sensation, mostra postmoderna che ha fatto scontare, in un is(t)mo turbinoso, la conturbante sensazione del corpo post-human con il perturbante fantasma moderno del senso.
Giordano, i tuoi tavoli dalle gambe da bull-dog e dalle fauci aggressive, sia pure con zanne dorate, danno l'assalto al design, sia pur sapendo che è questo a dare scacco all'arte: è il design che è diventato forma simbolica, valore artistico, opera unica (Shuttle); è l'architettura a farsi opera d'arte (Gehry, Eisenman...). Non è l'arte che si è data funzioni, progetto, struttura: sono il design e l'architettura ad aver compreso che le cose sono sempre fatte, le cose sono sempre dei fatti, mai solo oggetti. Fenomenologie. Comunicazioni.
Soprattutto comunicazioni.
A cambiare il mondo, no è più l'idealismo dell'avanguardia, ma la nuova forma della merce (attenzione: non soltanto, dunque, la forma della nuova merce): il prodotto del design può finalmente uscire dai vincoli dell'estetica e, esattamente come l'opera d'arte dell'avanguardia, essere costituito da cose non più "necessariamente" belle, utili, piacevoli. Ma cose, il cui criterio di novità e i cui caratteri di novità producono attrazione attraverso l'esaltazione del loro significato di feticcio, che può assumere qualsiasi forma.
E' quest'aspetto attraente – che caratterizza oggi qualsiasi elemento inorganico, e che fa dell'oggetto tecnologico, di qualsiasi oggetto tecnologico, un ente dialettico (volevo dire: un'entità interattiva) – a porci la questione della sua improvvisa artisticità.
La cosa, qualsiasi cosa, che cade entro il dominio del tecnologico, diventa non più solo cosa, ma ultracosa, con una serie di caratteristiche in più: punto di una rete, elemento di un processo, linea di un rizoma, particolare di un corpo complesso, organo di una macchina più vasta... La cosa, qualsiasi cosa, caduta all'interno di questa forza gravitazionale, si autodecontestualizza; non ha più bisogno di Duchamp per esplodere di nuovi sensi, non ha più bisogno di essere collocata in un luogo privilegiato per apparire in tutta la sua forza comunicativa: basta che essa si produca come plusvalore simbolico, ipermerce.
La cosa si trasforma inesorabilmente in oggetto e l'oggetto in pro-dotto e il prodotto in merce, perciò essa ci si presenta come dotata di una qualità teologica (chi lo diceva, da sotto la bianca barba, che ne aveva visto di tutti i colori?), anche se il suo destino è soprattutto e inequivocabilmente teleologico. La cosa ha un fine, quello di acquistare la vita, di confondersi tra le speci viventi, al punto di essere scambiata per un organismo: essa ci appare oggi improvvisamente viva, talmente viva da farci capire che sopravviverà alla razza umana, perchè ci accogiamo che sta costruendosi una sua intelligenza, senza che possiamo fermarne l'incessante metamorfosi.
Caro Giordano, frutti di covate melefiche (Dick ci assista), i tuoi tavoli-scultura, i tuoi tavoli-rodotti, i tuoi tavoli-oggetti-opere, le tue sculture-tavoli, o come diavolo li vuoi chiamare, posseggono questo fastidioso aspetto di essere delle forme indefinibili, mutanti, metamorfiche: ibridi di specie diverse, portatori di contaminazioni infinite.
Auguri per le nuove creature, che abbiano pietà di noi, noi che ci sentiamo ormai poco di più di una cosa che sente.

Giungo 1998