Traversar confini,
sentir nell’animo oscuri presagi



Sandro Parmiggiani


Noi cerchiamo quale sia il progetto del mondo...
quel progetto siamo noi.
   Novalis

Sorprende, questa mostra di Giordano Montorsi alla Rocca dei Boiardo di Scandiano. E, insieme, affascina nella sua parte più nuova – il grande labirinto sul pavimento del salone del piano nobile, e le inquietanti, puntuali presenze nei cunicoli e negli slarghi dei sotterranei della Rocca, fornendo, con le opere collocate nelle stanze dell’Appartamento Estense del piano terra, elementi e spunti di riflessione per meglio chiarire il percorso complessivo dell’artista.
Quando ci si inoltra nelle tre sezioni dell’esposizione, e poi, a ogni “stazione” – l’installazione nel ventre della Rocca è in fondo concepita come un cammino unitario, suddiviso in varie tappe, in cui si rappresentano singole idee e visioni che svolgono un tema comune – o alla conclusione della visita, le si ricollega, ci si rende conto che forse solo ora, con le opere di questi ultimi anni, Montorsi ha colmato la distanza, che talvolta poteva addirittura essere percepita come dissociazione, ha varcato il confine, che sovente si poteva intravedere, tra le sue convinzioni etiche, la sua costante necessità di darsi una filosofia del mondo, e le sue esperienze artistiche. Nel primo Montorsi, infatti, il passaggio da un motivo all’altro – dalla pittura, fondata sul gesto e sul colore, con una qualche affinità con l’informale, alla scultura, in cui l’artista ha mescolato le suggestioni di Brancusi, del surrealismo e del minimalismo – era probabilmente l’esito dell’esigenza di costringere entro la cornice degli strumenti tradizionali dell’arte le tensioni etiche, e di ragionamento “filosofico”, che da sempre agitano e segnano l’artista. Montorsi ha sempre tenacemente coltivato una sua coscienza civile: mai ha rinunciato, nonostante le cocenti disillusioni, al desiderio di interrogarsi su un possibile progetto di un mondo diverso, fatto da molti attori e non calato dall’alto, in cui siano negate la miseria della fame e l’orrore della guerra, ed assicurata a tutti la possibilità di una migliore condizione umana. Certo, c’era un elemento comune nelle opere di Montorsi degli anni Ottanta e Novanta: il suo costante misurarsi con l’idea di un rapporto tra le forme e le forze, spesso alluso nella rappresentazione di un confine sempre instabile e fuggevole, che era insieme materiale, spaziale e temporale. Nei dipinti, lo si poteva cogliere dentro le stesure stesse del colore, o attraverso la raffigurazione di vortici della creazione, di gorghi del tempo, in cui tenebre e luci si contendono lo spazio – anche nelle pitture recenti, del resto, sui fondi di sciabolate di colore compaiono un uccellino, un elemento di base dell’architettura, perfettamente disegnati, e si ha dunque la presenza simultanea di indefinito e di finito, della precisione del dettaglio e del respiro del grande gesto); nelle sculture, quel confine si mostrava attraverso le caratteristiche dei materiali, e nel loro rapporto con l’aria, con l’atmosfera che li avvolge. Ora, la frattura tra sentimenti e opere pare ricomporsi, la linea di confine tra idee e prodotti artistici sembra definitivamente superata.

Con i lavori di questi ultimi due anni – le installazioni allestite nelle Sale Espositive di Bibbiano, Cavriago, Collecchio, Gazoldo degli Ippoliti (dove e’ iniziata la collaborazzione artistica di Sandra Moss), nel Castello di Sarzano, nel Palazzo Civico di Montechiarugolo, e a Basilicanova – Montorsi s’inoltra felicemente nella realizzazione di opere che sono assemblaggio e combinazione di elementi diversi: disegni e dipinti, ma soprattutto oggetti e moduli appartenenti alla produzione industriale (le reti metalliche di sicurezza dei cantieri stradali e edili; i listelli di legno nero del labirinto). Il disegnare e il dipingere, non è, per l’artista, una pratica residuale da sbrigare superficialmente: basta pensare ai memorabili disegni al carboncino di grandi particolari di animali esposti a Cavriago, o, qui a Scandiano, al grande pannello dipinto e segmentato nella salone del labirinto, fatto di una pittura felice e matura. Insomma, Montorsi, pur non abbandonando il rapporto con l’espressione artistica tradizionale, la integra con una sapiente “messa in scena” di cose che, nello stesso tempo, sono portatrici del loro messaggio originario ma che ne acquisiscono uno nuovo, magari ridipinte di nero e collocate in un certo contesto, chiamate a fare i conti con uno spazio del tutto nuovo, su un palcoscenico in cui si trovano a incarnare un’idea, un’intuizione, un sogno dell’artista.
Nel suo percorso più recente, al di là della costante presenza di certi oggetti (dagli animali dipinti di nero alle reti metalliche), c’è in Montorsi una continuità di stile assolutamente forte e evidente, come se lui stesse scrivendo una sorta di romanzo fatto di capitoli che sono sì autonomi racconti, ma nei quali comunque entrano in scena molti degli stessi personaggi, e c’è la stessa “scrittura”, la stessa atmosfera di fondo: l’ossessione del confine, l’indicazione di un’alterità stridente e radicale. Insomma, mentre nelle opere dei due decenni precedenti la tensione dell’artista era indirizzata verso il superamento dei limiti, ora egli pone l’accento sulla costrizione insopportabile della perdurante, crescente presenza di confini, di barriere, di gabbie – non solo i corpi possono soffrire e essere reclusi; anche le coscienze e le anime possono provare tormenti e essere ingabbiate... È come se Montorsi si avvicinasse, in punta di piedi - stare in punta di piedi è la posizione dell’acrobata, del saltimbanco, per vedere più lontano senza perdere il rapporto con la terra..., e non a caso l’artista ci propone nei sotterranei la figura di un automa-ginnasta – e guardasse dentro il pozzo senza fondo della memoria, dell’età perduta dell’infanzia, e associasse queste visioni a una serie di scene della vita quotidiana, evocate, immaginate, trasfigurando il tutto in una sorta di fiaba amara. Credo sia emblematico di questo atteggiamento la consuetudine di Montorsi di dipingere di nero gli animali di plastica che utilizza – a Scandiano, anche i soldatini e i carri armati; in verità, a Gazoldo gli animali sui tasti del pianoforte erano necessariamente bianchi e neri, e a Sarzano i fenicotteri erano del blu violaceo del sogno. Il nero è colore straniante, che immediatamente fa varcare il confine che separa la realtà dalla fantasia, collocando questi piccoli protagonisti nel regno della fiaba: più non siamo di fronte a giocattoli ma a archetipi del mistero. Mi viene spontaneo qui ricordare una delle fiabe russe più famose, La gallina nera di Antonij Pogorelskij: il mondo incantato di Cernuska e del suo giovane amico Alioscia, solitario e sognatore. In verità, in Montorsi l’atmosfera di fiaba viene presto sovrastata da un senso di incubo, da un’allusione a un oscuro presagio: sia per i reperti di una vita esistita o solo sognata, di una presenza che ora si fa irrimediabilmente assenza – le scarpe, gli stivali, sempre rigorosamente neri, o, come nei sotterranei della Rocca dei Boiardo, i brani di vita quotidiana evocati e gli arredi dell’abitare sparsi qua e là – sono, in fondo, le rêveries dei reclusi che lì vissero giorni infiniti o incontrarono la morte, dopo averla a lungo attesa. L’alternanza tra visioni “rassicuranti” (gli abiti stesi, il tavolino imbandito, i cuscini, gli asciugamani, il seggiolino, il gatto che dorme su un pouf) e scene “spiazzanti”, inquietanti, che, come nei sogni, vogliono stabilire un dialogo tra interno e esterno, tra buio e luce, tra memoria e visione (l’ombrello aperto e appoggiato a terra, sotto cui cresce dell’erba; la fetta di prato con una pallina da tennis; il labirinto magico, confine che separa dall’altrove, al di là del quale stanno gli animali sul davanzale di una finestra che si apre sull’erba del terreno; l’incubo sottile degli abiti neri appesi a un filo elettrico che diagonalmente fende una stanza; gli uccellini che cantano quando un visitatore si avvicina; il letto “rovesciato”, con lenzuola e cuscino poste al di sotto della rete; la tragica innocenza per sempre perduta della bambina bionda, incantata e affascinata da una scena di ordinario dominio) sono lacerti di un sentimento che costantemente si respira nelle nuove opere di Montorsi. I trapassi da un tempo all’altro erano stati anticipati, in forma emblematica, dai lavori in cui gli animali sono colti mentre bucano, attraversano, la superficie della tela: s’affacciano, entrano nella nostra dimensione o ne escono, se ne vanno verso l’altrove. È, questa, una sorta di meditazione sul tempo, che appare sospeso, circolare, come in preda a un eterno ritorno, in cui non solo, come giustamente credeva Eliot, “le radici del futuro sono nel passato”, ma forse “le radici del passato possono essere nel futuro”.

È una vera e propria “Arca di Noè” quella che Montorsi va disponendo nelle sue ultime installazioni: a Scandiano, sul cerchio nei sotterranei lui pare avere collocato tutte le specie della terra, e il suo interesse va dagli animali ferocissimi, ormai scomparsi, come i dinosauri, a quelli addomesticati e ormai mansueti. Nella discesa ad infera dei cunicoli sotto la Rocca, antico luogo di privazioni della libertà e della vita, e di torture, collocati in nicchie dentro il muro, su mensole, in processioni e in file come amano tanto i bambini piccoli nel loro bisogno di dare ordine al mondo, questi piccoli animali neri diventano i Penati di un mondo perduto. Nel labirinto al piano nobile della Rocca, le processioni degli animali, delle automobiline, di altri giochi dell’infanzia, delle bambole russe e dei carri armati, lungo i segmenti ad angolo retto del labirinto di listelli di legno e di vecchie cornici – il tutto rigorosamente nero – paiono un formicaio brulicante di cui più non si coglie il senso, un’asfissia della libertà, un’ossessione non stemperata dai rettangoli vuoti specchianti che qua e là s’aprono, ma resa solo meno amara dalle vecchie cartoline di città e paesi della Bella Italia e della Bella Europa – un contrappunto tra un’uniformità, una sorta di dover essere entro una dimensione cui nessuno sfugge, e i lampi di una bellezza che fu, che ancora persiste ma che spesso non viene colta, perché l’occhio, sopraffatto dalle immagini e dai colori in rapida successione, più non ha la capacità fisica di vedere, o perché sono mutati e corrotti i canoni del bello... In questa grande opera, Montorsi rappresenta il mondo come un paesaggio visto dall’alto, come una sorta di immenso, infinito labirinto, complesso e dialettico: c’è la costrizione a un cammino inconsapevole ma c’è anche la possibilità di uscire da quelle strade così l’una all’altra uguali, magari per rivisitare ciò che la memoria ancora non ha perduto. Non ci propone, Montorsi, alcun talismano della felicità: cadute sono le certezze e le illusioni, il progetto del mondo che molti hanno cercato fuori di sé è probabilmente dentro ciascuno di noi, e la funzione dell’artista, o più semplicemente di chi continua a pensare fuori dai cori degli ossequianti, è quella di spingersi a esplorare, prendendo a prestito una bella frase di Emilio Tadini, “l’intera libertà della ragione”.